
Il cinema della Normale "L'AMORE MOLESTO" di Mario Martone
Photo: David Wall by Canva
L’AMORE MOLESTO
di Mario Martone
Durata: 104'
Italia, 1995
con Licia Maglietta, Anna Bonaiuto, Angela Luce, Gianni Cajafa, Peppe Lanzetta
Delia è un'illustratrice di origine napoletana, ma vive a Bologna e sembra ormai aver lasciato le sue origini alle spalle. Sarà, invece, costretta a tornare a fare i conti con le proprie radici e con il proprio passato quando dovrà tornare a Napoli per il funerale della madre Amalia, morta annegata per presunto suicidio. Delia deciderà di indagare sulla vita della madre, convinta che una donna come lei, esuberante e vitale, non possa essersi suicidata. Mario Martone, portando sullo schermo il primo romanzo di Elena Ferrante, costruisce un film incalzante, con i ritmi del thriller, e delinea il percorso di formazione e deformazione che molte donne compiono: allontanarsi dalle madri per poi accoglierle nuovamente dentro di sé, ucciderle simbolicamente per riuscire a farci pace per sempre.
La regia attenta di Mario Martone riesce a restituire tutti i temi cardine della poetica di Elena Ferrante, che si trovano già in nuce nel suo romanzo d’esordio, L’amore molesto. In particolare, la pellicola rende manifesta l’attenzione di Ferrante al linguaggio dell’abbigliamento, attraverso cui Delia riscopre il legame con la madre sarta. All’inizio del film, la protagonista è sempre vestita in abiti maschili e sobri, mentre tenta di smarcarsi dall’esuberanza di Amalia e dagli eccessi che, secondo lo stereotipo, si legano alla sua città d'origine, Napoli. Anche il suo mestiere la lega al padre pittore, figura rinnegata ma a cui resta incoscientemente legata a causa del rapporto conflittuale con la madre. Tuttavia, durante la sua indagine per ricostruire gli ultimi giorni di vita di Amalia, Delia si trova quasi accidentalmente a indossare l’abito rosso e sensuale che quella aveva pensato di regalarle. Non è una decisione consapevole, ma, attraverso il vestito, la figlia ritrova il lascito del corpo di Amalia nel proprio, notando e valorizzando tutte quelle somiglianze per cui aveva sempre provato repulsione: in questo modo, il passato della madre, a cui viene attribuito un nuovo significato per la sua storia di sofferenza e di soprusi, continua a vivere con la sua rilevanza nel presente della figlia. Come Amalia, in vita, era sarta, Delia si rende a sua volta sarta per riscoprire, in sé, il corpo della madre, condannato all’informe dalla violenza maschile. Non è un caso che Elena Ferrante, parlando dell’Amore molesto e del legame tra maternità e sartorialità, citi un passo dallo Scialle andaluso in cui Elsa Morante ironizza su come gli uomini meridionali concepiscono le loro madri: «per i quali madre vuole dire due cose: vecchia e santa. Il colore proprio agli abiti delle madri è il nero, o, al massimo, il grigio o il marrone. I loro abiti sono informi, giacché nessuno, a cominciare dalle sarte delle madri, va a pensare che una madre abbia un corpo di donna. I loro anni sono un mistero senza importanza, ché, tanto, la loro unica età è la vecchiezza. Tale informe vecchiezza ha occhi santi che piangono non per sé, ma per i figli; ha labbra sante, che recitano preghiere non per sé, ma per i figli». Delia riscopre il corpo della madre attraverso il proprio e le restituisce tutta l’indipendenza che la violenza patriarcale le aveva sottratto in vita; la protagonista riconcilia la dimensione della maternità con quella della femminilità e della seduzione e, alla fine della pellicola, quando finge di chiamarsi “Amalia”, riconosce la presenza magica della madre dentro di sé.